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La Febbre Incendiaria

by Marco Cantini

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1.
Ida In Lotta 04:42
Eccomi qui: in fila per una minestra economica. Senza più vergogna senza più paura. Mentre passa gente coi pacchetti in mano. Vengono dalla piazza di Santa Maria Liberatrice. E per oggi è così: propagandano straordinarie elargizioni. C’è il pasciuto “Re di Roma” in persona. Che presiede alle distribuzioni. Useppe figlio mio. Figlio di nessuno. Con la mia tenerezza bestiale e inservibile. Stanca mi trascino così. Viva ancora qua. Nella mia temporanea immortalità. Quindi resto qui. Nella Storia che non deplora e non commisera. Senza più un domani senza più timore. Di decreti razziali. Ordinanze intimidatorie. Cari piccoli insetti di Santa Maria. Che guarda e tace. Useppe figlio mio. Nato tra macerie. L’informe spazio che un tempo chiamavamo quartiere. Persa ancora qua. Nella mia temporanea immortalità.
2.
Manonera 05:07
Dicono che verso la fine di un novembre tornò. Senza tre dita di una mano. Senza mezzo piede. Senza nemmeno più il suo mestiere. Quello di giovane falegname. Spedito in Russia con gli altri a morire. Quando il padrone prese la decisione: in villeggiatura a Riccione. Filomena gli fece un guanto di maglia nera. Per lasciare fuori le due dita sane. E di una vita quel che rimane. Dopo quegli anni di prigionia. Asia Siberia e il colore giallastro di malattia. E lo chiamava Manonera quella gente del quartiere. Tutti il reduce del Don a festeggiare. Con la sua umiliazione - tra le tante - di non saper più bere. Perché il vino non fu mai un vizio. Per lui fu sempre un piacere. Dicono che come un fantasma un novembre arrivò. Nel cuore un truce ricordo di gelo e cancrena. Di scarpe dure. Di sete. Di pena. A mendicare un po’ di compagnia nell’abitudine di un’osteria. Lo stesso tavolo un solo bicchiere. Lo stesso identico amaro sapore. Si presentò con la stampella e un cappotto tedesco. Disse che al posto della decima mai avuta gli avevano dato millecinquecento lire. Che a lui dovettero sembrare un capitale. Per poi vederle esaurire dal Brennero al quartiere. C’è chi ricorda Manonera. Tra la gente nelle sere. Quando quel reduce del Don vide tornare. Con la sua umiliazione - tra le tante - di non poter più bere. Perché il vino non fu mai un vizio. Per lui fu sempre un piacere.
3.
Un Figlio 04:23
Deformati dalla smorfia della guerra. Nella sporca e promiscua ridda sociale. Quando il canto di un gallo tra le macerie si confonderà. Al suono delle sirene. Per un figlio che muore di febbre incendiaria. Per Napoli che ci sembrerà una Baghdad leggendaria. Cadranno troni re miti e regine. Calcinati di sangue su queste rovine. Solo un figlio che cercherà fortune amorose. Giustizia e anarchia. E che non seguirà il passo della Storia che ci spazza via. E sarà stufo della città santa. Dove dicono che la guerra si fa per finta. Cercando un posto senza santità. Dove ogni cosa che deve bruciare brucerà. Ma la Storia dell’uomo schiaccia povere vite. Tra i fascismi e il potere di chi sempre le ha usate. E chi implora a un Dio la sua testimonianza è perché non ha più quella della sua coscienza.
4.
Nacque dentro a un vizio sociale la rabbia di un poeta. E le sue idee nei vincoli del perbenismo famigliare. Contro quella sporca perversione che - diceva - infetta il mondo. Ed un tempo era stata sua. Ciò che lui chiamava borghesia. Partì senza un soldo né avvenire. Escluso dalle scuole pubbliche fasciste. Corrotte e reazionarie. Ma rifiutò l’esilio oltreoceano: la fuga dall’inferno. E restò con la sua poesia. Professando fede all’anarchia. Prossimo a quell’umanità che nasce già soggetta alla violenza organizzata. E alla realtà più precaria: ossia la classe operaia. Forse fu grazie a qualche inghippo clandestino che divenne presto semplice operaio. Un latitante ebreo. Un sovversivo. Ma la sua identità rimase ancora sconosciuta. La cosmica ferita. Per l’insulto e per l’assenza. Di chi vive a lungo privo di coscienza. Ma la puzza dell’inferno sa di cloro. E in fondo lui non era come loro. Tra odori caustici e le polveri. L’ininterrotto sisma cronico la sua libera scelta. Di rivolta senza sosta. E per gli altri una condanna imposta. Figli di quell’umanità che nasce già soggetta alla violenza organizzata. E alla realtà più precaria: ossia la classe operaia. Dove la fabbrica non dà mai tregua nel suo fragore. Dolgono i timpani. Si perdono le voci. Non basta gridare. Salgono odori nelle narici mischiati al respiro. Arroventati vapori che bruciano. Fiamme e fumo. L’uomo è frammento di una materia a buon mercato. Dove una macchina ingoia il suo corpo: lo rende schiavo.
5.
Davide ha un ricordo: suo padre che lo accompagna a scuola nell’auto una mattina. Davanti a un uomo è costretto ad una brusca frenata. Ha l’aria di scusarsi e piano si avvicina: è uno a cui suo padre ha tolto il lavoro il giorno prima. Si ricorda che l’uomo non proferì parola. E l’auto ripartiva. Quel volto si allontanava. Di un uomo derubato. Mentre veniva offeso deriso e per sempre discriminato. Chissà se poi riapriva un varco nella lugubre vela. Immonda tra le masse. Sputando sui privilegi. E i conformismi di classe. Le cerimonie i doveri e quelle loro sentenze. Le carità mondane le insultanti beneficienze. Chissà se ritrovava l’inizio della sua ferita. Quei primi sintomi di bambino senza difese. Del rivoltante male borghese. Quelle pose di sublimità speciale. Le proprietà esibite come bandiere di un ordine sociale.
6.
L' Anarchia 05:15
Nei campi. Quando il sangue si approssima al fango. E sospinge nel rogo del mondo. Un bambino si era ferito. Dalla zappa per sempre segnato. Poi la guerra: ride il lupo. Resta il muggito. Di chi ha fame ed è sopravvissuto. Torna scritto d’antico squallore: favorire il conflitto è un affare. Non so come né dove scovò certi testi di Proudhon. Bakunin. Malatesta e altri anarchici. Predicava così: “se non c’è libertà non possiamo aspettar. L’anarchia sarà la difesa da ogni autorità. Per un equo avvenir.” I versi cadremo in un fulgor di gloria non gli fu mai dato insegnare. Maestro al servizio del boia. Ma dentro un rifiuto globale. Con gli occhi al soffitto cantò. Come a vincere un oblio. Poi di nuovo nel detto citò l’inutilità dell’ipotesi Dio. E il vero conquistò. Nel giusto camminò così. Dall’estremo sud calabrese. Non so come ancor più sopportò. Il disgusto masticò. Nel vedere trionfare il terrore: parodia di una rivoluzione. C’è un sentimento cattivo d’inferiorità. Scava feroce sempre dentro le sue prede. Con la furia più cieca. Di un roditore paziente. In una terra pesante che non dà più frutti o germogli. Dopodiché le ricompensa coi sogni. Una colonna in marcia nera è entrata prepotente in San Lorenzo. Devastando abitazioni. Picchiando. Uccidendo i ribelli sul posto. Dove il mostro non preesiste. Ma si determina.
7.
Anaciclosi 05:06
Negli alberghi di lusso. Requisiti dai comandi del Reich. Si svolgevano cene ossessive. Tra i vomiti di grasse abbuffate. E dalle tavole imbandite concertarono stragi impunite. Ogni cuore ha una croce. Dieci cento mille croci con se. Da un vassallo d’intrallazzo malato. Che si sente beatificato. E umiliava la folla nel rango di fantocci. Persi nel suo sogno. Roma soffoca di pena. E dirompe il polverone della rovina. Non avrà più dominio nel mondo. Quella morte da scontare vivendo. L’innocenza affamata dall’eco rantolante. In un tempo sfinito. Nella nuda pelle del mondo si distende. E poi striscia sul fondo. E cancella le tracce sincere. Che plasmarono nuove frontiere. Nei quartieri del lutto. Rastrellati dai comandi del Reich. Pan di segale e segatura. Per la fame se elargisce paura. E divora nel rombo remoto. Del futuro già a morte ferito. Roma scruta in lontananza. La ferocia dell’umana pia speranza. C’era un ragazzo che alla fine parlò - tra veglia e sonno - di filosofia. Di date e poi conti di spese. Elenchi di biancheria. Distinguendo intelletto e sostanza: intese Dio e natura. Conferendoli ad Hegel e Marx. Nella nuda memoria che ha la faccia di un soldato: spappolata sotto il suo stivale. Quasi un implorante orgasmo che ritornava a far male. E accanto al letto la solita sedia. Con la Medicina: polveri e pastiglie eccitanti da iniettarsi in vena. Dove restava un avanzo di kif. Comprato da un marocchino. L’oppio grezzo color d’ambra scura. E lo sguardo di un bambino.
8.
Il Potere 04:03
Il soldato non si distingueva dagli altri della sua serie. Alto biondo giovane. Col solito portamento di fanatismo militare. Del mondo sapeva poco o niente. Di nome si chiamava Gunther. L’avevano scaricato a Roma. Un giorno di gennaio del ’41. L’ultima tappa di una coscienza elastica. La meta sconosciuta forse l’Africa. Oltre la muraglia che chiude l’enorme cimitero del Verano. Le fabbriche tombali gli sembrarono da lì gli storici sepolcri dei cesari. Cercò un bordello: non fu mai trovato. L’andatura marziale. E lo sguardo da disperato. Il soldato ora pretendeva. Quell’obbligata gentilezza dal paese alleato. Dentro un seminterrato un’osteria poi trovò. C’era un garzone scortese. Ed un oste ancora di più. Oltre le rovine. La Storia. L’attesa il giorno il come il dove l’ora. Le morti intermittenti disvelavano così le livide memorie degli uomini. Restò in piedi al banco ordinando vino. Poi minaccioso tracannò: da invasore assassino. Nel putrido scirocco della strada. Quel vino gli salì. Trattenne ogni azione. Quando una donna rincasò. Lui la vide arrivare. E lei con occhio disumano riconobbe l’orrore. In lei c’era una dolcezza passiva. Di una barbarie profondissima e incurabile che somigliava a una precognizione. E la stranezza degli occhi ricordava certi animali. Che sanno passato e futuro di ogni destino. Il senso del sacro. Il potere che può mangiarli e annientarli per la sola colpa di essere nati.
9.
L'orrore 04:44
E la Babele terrestre si trasformò in un circo. Per l’uomo con l’uniforme. Che ti chiamò “signorina”. E con un salto arrivò. Al tuo portone di casa. Dove spingeva il cammino. Lui che si finse innocente: la parte del pellegrino. Con volo da trapezista ti anticipò sulle scale. Ma dei tuoi affanni il peggiore. Nella pietosa salita. Solo il pensiero di Nino. Il primo figlio. La vita. Pregavi non fosse lì. Non ritornasse ancora. E ti ribellerai al parlamento del cielo. Nel danno che stringerai. In quel parallelo. Il tempo non si volterà. Verso ogni gesto o parola. Dove ancora verrà. L’immisurabile lingua. Che asciuga. Ma la vertigine arriva. Con echi strani di voci. E di torrenti. E tremori. Dai tuoi infantili malori. Quella ripulsa più estrema. E non un gesto lascivo. Certificò poi il pretesto: l’orgasmo definitivo. Forse era un emissario dei comitati razziali. Un capitano SS. Coi suoi presagi mortali. Per un’altra stella gialla. O forse solo una copia. Di mille volti conformi. Moltiplicavano ora. All’infinito quel nome. Della tua persecuzione. E ti dibatterai. Nell’urlo che esplora il buio. Quando dilagherà. Alla deriva di un nero sudario.
10.
Luglio '43 05:16
Per Ida la borgata coi suoi abitanti restava una regione esotica. Scolpita in un immobile declino. Nell’attraversarla con un ferito bisbiglio. E il batticuore del coniglio. C’era stato qualche nuovo arrivo nel ricovero di Pietralata: sinistrati. Fuggiaschi del sud. Tra gli alloggi fatiscenti di regime. Ora crollano case. Sopra il nero petto di una fossa. Quelle stesse case che non allevarono le nostre ossa. Mentre in giro si dice che proprio ieri è caduto il duce. Ma nessuno sa dove sta. Ora c’è una famiglia: li chiamano “I mille”. Sono rimasti senza un tetto. Dalla primavera del bombardamento. E un selvatico bimbo danza ciò che può: non è un tango non è un fox. L’esistenza promiscua è un trapezio forzato di una stanza comune. Per quel bimbo che ama chiunque la più grande fortuna sublime. E Ida dice “Nino presto tornerà per portarci via di qua.” Se la Storia già si muove dentro un altro binario. Il suo senso. La rotta. Non è mai nell’orario. Lascia sottopassaggi. Tane e nascondigli. Sporca e rigida scivola.
11.
Ora Davide torna a casa. Ma non c’è più nessuno. Sono partiti e mai più rientrati da Auschwitz-Birkenau. C’è una bambola di sua sorella. Nello stesso scaffale di anni fa. Con gli occhi di vetro aperti e i capelli impolverati. E altri oggetti lì lasciati. Della prima vita di Davide.
12.
A dispetto della bocca impastata dal bere. Con un tono di riscossa. Che non si può placare. Davide Segre rispose: “io non ammazzo nessuno. Perché lo Stato e il potere che nego con la violenza sono tutt’uno. E di questo io non ho mai dubitato: se il prezzo è tradire l’Idea lo scopo è già fallito.” Rifugio degli sfollati: calda serata autunnale. Davide Segre disse: “fatemi entrare!”. Chiese stremato solo di riposare. Ma non fece il suo vero nome. Lasciò una sacca al proprio capezzale. Con dentro tre libri. Uno di poesie spagnole. Mentre qualcuno giurò - tra i presenti - che un sogno ne pervertì i lineamenti. E volteggiò sulle nostre reliquie di vita. Su Napoli liberata. Da chi era stufo di aspettare gli alleati. Da tutti i fiori inariditi. Che non si sono mai piegati. Ma Davide Segre si destò. Sembrò l’inviato ventenne di una perduta tribù. E disse: “l’idea non è un passato o un futuro. La mia idea non è mai un’astrazione. È l’idea: il presente nell’azione. E davvero io non ho mai dubitato. Non è certo questo un voto di chiesa. È il mio credo: il dogma di un ateo.” Poi sarà un miracolo il non ripetersi del ripetersi. Si accamperanno con il loro segreto. Uomini protesi nell’inganno consueto.
13.
Ora rimpiangi la notte. Che sospende i commerci. Sfolla le strade. Nessuna vita verrà perduta. Ogni cosa poi ritornerà nel suo ventre. Da dove è venuta. È già un miracolo che tutto questo sia esistito. Quelle esistenze. Quei nomi. Che ci han testimoniato. Rifiorirai vessillo di dolore. Dovrai restare umana: nel più bestiale amore. Come per muovere i primi passi. Quando scappasti alla madre ridente. Con la paura di perdere tutto. Che tutto poi ti restasse attaccato per sempre. Ora tacciono tutte le radio. E cessa il traffico tardivo. Lo stridore dei tram. Il vaniloquio di qualche ubriaco. Al vivo al vero agli occhi chiusi del mondo. Ovunque soffiano scorie. Da uno spazio profondo. E in uno slancio d’oblio bel tempo si dorò. Senza più dono o follia. Nei prati prossimi alla città. Ovunque rotolerà lontano quel punto d’incontro d’ogni male. Il flutto disumano. Il sogno. L’immane.
14.
La Storia 02:32
E poi sui prati lasciammo scialbi detriti di guerra. Sopra i millenni strisciammo. Ce la sognammo la terra. Laddove uomini portarono le leggi. Avvinghiati ai propri fini personali. Quasi sempre irrealizzati. Ora testimoni muti. E non vedemmo al di là del cosmo quando ci travolse. Vagammo a lungo tra i fiori malati. Rincorrendo cieli perduti. Sotto un’altissima pace. Per chi crede a un segno o a una croce. Ma la Storia non si contraddice. La Storia è un cerchio atroce. La Storia è il solo giudice.

about

La febbre incendiaria è il mio personale omaggio, sentito e appassionato, ad Elsa Morante: un concept album - dopo Siamo noi quelli che aspettavamo - liberamente ispirato da La Storia, il suo romanzo più celebre uscito nel 1974.
Già a partire dal diciassettesimo secolo - con Claudio Monteverdi che comprese le potenzialità musicali della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso - la musica ha attinto dalle grandi capacità espressive della letteratura: arti dizigote che spesso si sono combinate insieme. Penso ai cantacronache negli anni ’50, al fondamentale apporto datogli dai testi di poeti quali Bertolt Brecht, e ai grandi Cantautori che restano per il sottoscritto insostituibili punti di riferimento: Fabrizio De Andrè con La buona novella e Non al denaro, non all’amore né al cielo, due album capolavoro rispettivamente tratti dai Vangeli apocrifi e dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. Senza dimenticare il teatro-canzone di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, ispirato dai modelli di Jean-Paul Sartre o Jorge Luis Borges, e agli innumerevoli esempi di altri smisurati Artisti - dalle ispirate coscienze libresche che negli anni ’70 raggiunsero il loro climax creativo - come Francesco Guccini, Claudio Lolli e Francesco De Gregori.
C’è un filo conduttore che lega il mio precedente concept Siamo noi quelli che aspettavamo - che attraverso il sogno di un professore tratteggiava i movimenti studenteschi e le avanguardie artistiche del ’77 bolognese e non solo - a La febbre incendiaria: la memoria mai fine a se stessa, le vite di personaggi sui quali fa da cornice la storia ufficiale dei fatti; quelle stesse vite, campioni di un meccanismo universale, stritolate nell’ingranaggio della Storia produttrice di morte: ergo il loro morire - come sottolineava Pasolini nel 1974 a proposito dell’opera morantiana - ha un’evidente funzione preordinata.
I fatti storici sono ancora una volta il comune denominatore. Ma stavolta la macchina del tempo conduce l’ascoltatore a Roma, al culmine di “un punto di orrore definitivo” (così Elsa Morante definì il ventesimo secolo), durante gli anni dell’ultimo conflitto bellico e nell’immediato dopoguerra: nella Storia con la S maiuscola - subita e non richiesta da milioni di vite - che innestò vicende che continuarono a premere sui sopravvissuti anche negli anni successivi, come l’effetto di un disastroso fungo atomico.
L’urgenza è stata quella di continuare a narrare le vite dei vinti, le storie degli altri che ci appartengono, facendo mie le stesse priorità della grande scrittrice nel 1974: recuperare una coscienza sociale e civile, schierandomi contro il sistema della sopraffazione, contro un potere capace da sempre - oggi come allora - di annientare quelle vittime che hanno la “sola e unica colpa di essere nate”, indagando e fissando un punto di vista sul nostro passato sociale e politico: in questo, prolungando un discorso interrotto dal precedente album.
Grazie al prezioso supporto nella produzione artistica di Gianfilippo Boni - musicista e cantautore di rara sensibilità e capacità, al quale ancora una volta devo moltissimo - e ad una squadra consolidata e affiatata di straordinari musicisti come Lele Fontana, Lorenzo Forti, Riccardo Galardini, Claudio Giovagnoli, Francesco “Fry” Moneti e Fabrizio Morganti (con i quali durante le prove sono nati gli arrangiamenti) è stato possibile realizzare questo album, registrato in gran parte in presa diretta presso il SoundClinic Studio@Larione 10 di Firenze. Ai suddetti musicisti si aggiunge nella collaborazione artistica Alessandro Camiciottoli, letterato che per me resta un fondamentale consigliere ed un inestimabile amico, e gli altri preziosi compagni di viaggio - musicisti, artisti e cantanti - che hanno dato in sovraincisione il loro apporto: Roberto Beneventi, Andrea Beninati, Serena Benvenuti, Nicola Cellai, Silvia Conti, Stefano Disegni, Tiziano Mazzoni, Nicola Pecci, Valentina Reggio, Marco Rovelli, Claudia Sala, Gabriele Savarese e Riccardo Tesi.
In conclusione, riprendendo la citazione di una lettera dal carcere di Antonio Gramsci - che la scrittrice chiama in causa alla fine del libro come Matricola n. 7047 della Casa Penale di Turi - mi auguro che questo disco possa essere un seme capace di non fallire e germogliare, in chi vorrà ascoltare, un fiore e non un’erbaccia.
A tutti voi, buon ascolto.
Marco Cantini


Cosa sanno gli uomini della Storia?
Cosa ne sapevano Gunther ed Ida, oppure Giuseppe, Davide o Manonera?
La Storia. Quella dei priapeschi fasti fascisti soppiantati dalla svastica opprimitrice.
Quella che, di ritorno, oggi ancora abbaglia e seduce.
Soffocati nelle sue spire, hanno lottato e ceduto.
La Storia, del resto, non fa sconti.
Eppure al di là della Storia non vi è difesa, né per i popoli né per gli individui.
La sua dimenticanza abbandona ciascuno al nodo scorsoio del Potere camuffato da Progresso.
La Storia allora per perseverare nella nostra dignità. Per non essere maciullati. La Storia.
Alessandro Camiciottoli

credits

released October 15, 2018

Testi e musiche di Marco Cantini

Produzione artistica di Gianfilippo Boni e Marco Cantini

Arrangiamenti di Gianfilippo Boni, Marco Cantini, Lele Fontana, Lorenzo Forti, Riccardo Galardini, Claudio Giovagnoli, Francesco “Fry” Moneti e Fabrizio Morganti.

L’album “La febbre incendiaria” è stato cantato e suonato live in presa diretta da Marco Cantini, Gianfilippo Boni, Lele Fontana, Lorenzo Forti, Riccardo Galardini e Fabrizio Morganti. Registrato presso il SoundClinic Studio@Larione 10 di Firenze nei giorni 22, 23 e 24 novembre 2017 da Giovanni Gasparini. Assistente di studio Francesco Felcini.* Tutti gli altri cantanti e musicisti sono stati registrati in sovraincisione da Gianfilippo Boni presso il Paso Doble Studio di Bagno a Ripoli (FI).**

*Escluso “L’orrore”, registrato al Paso Doble Studio di Bagno a Ripoli (FI), con batteria di Fabrizio Morganti registrata al La Capanna Studio di Sesto Fiorentino (FI).
**Escluso Marco Rovelli, che ha registrato presso lo studio Star Pillow Headquarters di Carrara.

Passaggio analogico effettuato da Gherardo Monti allo Studio 121 di Firenze.
Masterizzato da Giovanni Versari presso La Maestà Mastering Studio di Tredozio (FC).

Le immagini di copertina, retro e interni sono tratte da dipinti di Massimo Cantini massimocantini.jimdo.com.

Progetto grafico di Marco Cantini, Roberto Celli, RadiciMusic.

Foto dei musicisti realizzate da Roberto Celli, escluso le immagini di Claudio Giovagnoli e Francesco “Fry” Moneti, realizzate da Lorenzo Ci.

La foto di Marco Cantini in b/w è realizzata da Roberto Celli.

Fabrizio Morganti suona Turkish Cymbals, Batterie Play Drums, percussioni Schlagwerk.

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Marco Cantini Florence, Italy

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